mercoledì 11 novembre 2015

Sapere troppo. Non sapere niente. La tossicità del pettegolezzo.


Questi sono tempi in cui tanti vivono fisicamente isolati dal resto del mondo ma tecnologicamente interconnessi ad altri esseri umani.
Si può sbirciare nella vita degli altri con estrema facilità, attraverso fotogrammi gettati nel mare del web, come bottiglie riempite d'esistenza che galleggiano in un oceano fatto di nulla.
Pezzi di vita scaraventati tra le onde, spesso bocconcini per gli squali. Si sente il bisogno di fare questo per sentirsi parte di un qualcosa, anche se spesso non si sa neanche di cosa.
E chi osserva dall'altra parte dello schermo si convince di sapere tanto, o forse tutto degli altri, dimenticando che dentro ciascuno di noi esiste un mondo sconfinato, troppo spesso inesplorato anche da chi ci vive di fianco.
Ogniqualvolta un evento drammatico colpisce negativamente una comunità tutti si stupiscono. "Mio Dio, perché avrà fatto questo o quello? Sorrideva, in foto", ma non è alla foto che bisogna guardare. Bisogna guardare oltre, e nemmeno se si prova a farlo è facile capire o anche solo intuire qualcosa.
Quando ci si rende conto del fatto che non si sapeva niente dell'altro, almeno allora bisognerebbe tacere.
Perché il confine tra il sapere tutto e il non sapere niente è davvero molto sottile. Non serve a niente accatastare l'una dopo l'altra caterve di parole.
La tossicità del pettegolezzo è precisamente lì, nascosta dietro un finto dispiacere, dietro il fatto di voler essere dentro la notizia e voler commentare ancora e ancora. Dietro il fatto di aver saputo troppo o non aver saputo mai niente, né d'aver fatto, niente.

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