venerdì 13 novembre 2015

Sale cinematografiche e disabilità




Qualche mese fa sono andata a vedere l’ultimo film d’animazione del celebre “Studio Ghibli”, dal titolo “Quando c’era Marnie”. Una pellicola delicata in ogni aspetto, dai tratti e colori tenui e sfumati, dalle musiche alla storia d’amore e d’amicizia capace di superare barriere spazio-temporali e andare contro ogni logica. Un appuntamento imperdibile per gli appassionati del genere, tanto più che nelle sale italiane è stato possibile vederlo solo per pochissimi giorni. Tutto questo ha attirato ovviamente orde di cultori del genere o semplicemente curiosi. Ma non è del film in sé che vorrei parlare. Lo spettacolo era piacevole, ma più ancora è stata la “storia dentro la storia” ad avermi colpita.
Le scene del film, a tratti drammatiche e strappalacrime, curiosamente di tanto in tanto inducevano un piccolo spettatore a ridere a crepapelle, mentre molti guardavano il proprio vicino di poltrona con aria interrogativa. “Che cos’avrà da ridere tanto, questo?”. “Ma gli stanno facendo il solletico?”, o ancora “Eh, ma che palle” e tanto altro ancora, si diceva (sottovoce, per non disturbare gli altri).
L’esperienza insegna, però, che non tutti abbiano lo stesso grado di sopportazione/tolleranza, tante’ che dopo alcuni minuti di risate rumorose, un giovane evidentemente “Ghibli-dipendente” e per questo poco incline a perdersi anche una sola battuta del film, non è riuscito a tenere a bada la propria ira, esplodendo in ripetuti “E basta!”, “Smettila”, “Vai fuori”, il tutto a voce volutamente alta e in tono di severo rimprovero.
Finché, come nella peggiore delle commedie tragicomiche, l’accompagnatore del bambino dalla ridarella facile, rivolgendosi al severo mittente dei rimbrotti e guardandolo dritto in faccia, ha pronunciato poche ma esaustive parole: “Il bambino è disabile!”.
Silenzio di tomba in sala. Come chiamarla, se non figuraccia? Una delle più clamorose cui abbia assistito in tempi recenti. Scarsa tolleranza e poca empatia fanno fare tante pessime figure, in un’epoca in cui l’intolleranza più becera regna nei più svariati ambiti del vivere sociale.
Le scene del film continuavano a scorrere impietose, nonostante tutto. Molto probabilmente, se avessero potuto, in tanti avrebbero premuto il tasto “pausa”, me compresa. Improvvisamente in quella sala gremita era saltato fuori un argomento tremendamente serio, che si sarebbe potuto discutere animatamente dopo il film, come si faceva ai vecchi tempi del cineforum.
Un fuoriprogramma impegnativo dal titolo “Sale cinematografiche e disabilità”.


Io, personalmente, sono a favore del diritto sacrosanto a poter vedere un film, al di là dell’interpretazione del tutto personale che ciascuno gli dà. Chi siamo noi per dire che sensazioni l’altro debba provare? Anche quando il film fa piangere quasi tutti e a qualcuno invece fa tremendamente ridere. Anche quando una risata fragorosa fa perdere qualche secondo di audio. Tolleranza e valore della diversità da includere nel biglietto fatto all’ingresso e da portarsi in sala in dosi abbondanti. Perché anche questo è cinema. La realtà che si insinua in quella che sarebbe dovuta essere solo finzione, ponendo domande che vanno ben oltre il film. 

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