Qualche mese fa sono andata a vedere l’ultimo film d’animazione del
celebre “Studio Ghibli”, dal titolo “Quando c’era Marnie”.
Una pellicola delicata in ogni aspetto, dai tratti e colori tenui e
sfumati, dalle musiche alla storia d’amore e d’amicizia capace di
superare barriere spazio-temporali e andare contro ogni logica. Un
appuntamento imperdibile per gli appassionati del genere, tanto più
che nelle sale italiane è stato possibile vederlo solo per
pochissimi giorni. Tutto questo ha attirato ovviamente orde di
cultori del genere o semplicemente curiosi. Ma non è del film in sé
che vorrei parlare. Lo spettacolo era piacevole, ma più ancora è
stata la “storia dentro la storia” ad avermi colpita.
Le
scene del film, a tratti drammatiche e strappalacrime, curiosamente
di tanto in tanto inducevano un piccolo spettatore a ridere a
crepapelle, mentre molti guardavano il proprio vicino di poltrona con
aria interrogativa. “Che cos’avrà da ridere tanto, questo?”.
“Ma gli stanno facendo il solletico?”, o ancora “Eh, ma che
palle” e tanto altro ancora, si diceva (sottovoce, per non
disturbare gli altri).
L’esperienza
insegna, però, che non tutti abbiano lo stesso grado di
sopportazione/tolleranza, tante’ che dopo alcuni minuti di risate
rumorose, un giovane evidentemente “Ghibli-dipendente” e per
questo poco incline a perdersi anche una sola battuta del film, non è
riuscito a tenere a bada la propria ira, esplodendo in ripetuti “E
basta!”, “Smettila”, “Vai fuori”, il tutto a voce
volutamente alta e in tono di severo rimprovero.
Finché,
come nella peggiore delle commedie tragicomiche, l’accompagnatore
del bambino dalla ridarella facile, rivolgendosi al severo mittente
dei rimbrotti e guardandolo dritto in faccia, ha pronunciato poche ma
esaustive parole: “Il bambino è disabile!”.
Silenzio
di tomba in sala. Come chiamarla, se non figuraccia? Una delle più
clamorose cui abbia assistito in tempi recenti. Scarsa tolleranza e
poca empatia fanno fare tante pessime figure, in un’epoca in cui
l’intolleranza più becera regna nei più svariati ambiti del
vivere sociale.
Le
scene del film continuavano a scorrere impietose, nonostante tutto.
Molto probabilmente, se avessero potuto, in tanti avrebbero premuto
il tasto “pausa”, me compresa. Improvvisamente in quella sala
gremita era saltato fuori un argomento tremendamente serio, che si
sarebbe potuto discutere animatamente dopo il film, come si faceva ai
vecchi tempi del cineforum.
Un
fuoriprogramma impegnativo dal titolo “Sale cinematografiche e
disabilità”.
Io,
personalmente, sono a favore del diritto sacrosanto a poter vedere un
film, al di là dell’interpretazione del tutto personale che
ciascuno gli dà. Chi siamo noi per dire che sensazioni l’altro
debba provare? Anche quando il film fa piangere quasi tutti e a
qualcuno invece fa tremendamente ridere. Anche quando una risata
fragorosa fa perdere qualche secondo di audio. Tolleranza e valore
della diversità da includere nel biglietto fatto all’ingresso e da
portarsi in sala in dosi abbondanti. Perché anche questo è cinema.
La realtà che si insinua in quella che sarebbe dovuta essere solo
finzione, ponendo domande che vanno ben oltre il film.
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