Ogni attento osservatore sa che dietro ogni cosa, anche la più banale, si nasconde
una metafora in scala ridotta della vita. Persino le strade incandescenti sotto
il sole d’agosto, le automobili piene zeppe di passeggeri e, soprattutto, i
passeggeri stessi, offrono spunti di riflessione degni di un manuale
socio-antropologico.
Non
a tutti sarà capitato di provare a mettere ordine nell’intricato serpentone
anche detto comunemente “traffico”, che più spesso assume i caratteri di un
detestabile ingorgo, quando l’irrazionalità prevale sopra i singoli componenti
della massa.
Fate
un lavoro d’astrazione. Immaginate per un attimo di essere un agente di polizia
municipale, più familiarmente detto “vigile urbano”.
Io
non ho bisogno di immaginarlo. Io l’ho fatto, e ancora lo sto facendo. Le
stagioni si ripetono, anno dopo anno, ma la sostanza non cambia.
Ognuno
nel suo piccolo vorrebbe essere padrone e dettar legge. “Scrivi, multa,
sanziona! Ma guarda quello cosa sta facendo, togligli i punti della patente!”.
Ognuno
è arbitro inflessibile, quando a sbagliare sono gli altri. Ma quando tocca a
lui in prima persona?
A
quel punto, il “vigile urbano” diventa l’essere più detestabile, una spudorata
carogna senza ritegno, troppo inflessibile, che sta a guardare il pelo
nell’uovo.
Le
richieste di rigidità fatte quando a sbagliare era qualcun altro si trasformano
in suppliche a diventare fancazzisti e lassisti. E le formule utilizzate sono
infinite. “Girati dall’altra parte, fai finta di nulla”. “Eh, ma che palloso!
C’ero solo un minuto!”. “Dai, me la puoi togliere?”, alludendo alla multa. Quando
non volano offese gratuite urlate o soffocate ai danni del vigile, che poi non
è che ci provi gusto a “perseguitare” gli altri se non fosse che quel lavoro,
qualcuno deve pur farlo. Ed è anche utile, quando qualcuno ha il passo
carrabile occupato e non riesce ad entrare nel proprio garage, o qualcuno ha
parcheggiato nello stallo riservato agli invalidi, o ci buttano la spazzatura
nel giardino o si sta subendo qualche altro torto. Solo allora gli viene
riconosciuta una qualche utilità.
Ma
è così. Noi italiani siamo così. Pochi si distinguono dalla massa. In pochi
pensano che le norme vadano rispettate a prescindere da chi sia il
trasgressore. In generale siamo un popolo di pressapochisti, talvolta buonisti
e talaltra colpevolisti. Se sbaglia uno del nostro branco, tutto è concesso. Se
sbaglia un outsider, si chiama a gran voce il boia perché compia il suo
impietoso dovere.
Dobbiamo
scrollarci di dosso questo modo di agire che ci è rimasto appiccicato addosso
ormai non si sa più da quanto tempo. Applichiamo il Codice della Strada alla
vita, che poi altro non è che una strada forse anche un po’ più incasinata di
quella d’asfalto che ci riporta, ogni sera, a casa. Prendiamo le nostre
simboliche “multe della vita” senza sbraitare troppo. Impegniamoci di più. E
rendiamolo più civile e umano, il viaggio dell’esistenza!
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